La Grande Guerra

Lapide posta sulla facciata della chiesa di San Bernardo, inaugurata il 4 novembre 1933

Lapide posta sulla facciata della chiesa di San Bernardo, inaugurata il 26 ottobre 2014
Chiesa di San Bernardo, posta all'interno del Parco delle Rimembranze inaugurato il 19 settembre 1926

La Grande Guerra 1915-1918

Indici dei Caduti trecatesi

Ringrazio per la gentile collaborazione gli amici Gian Piera Leone, Silvia Musi, Valter Marchetto, Gian Luca Chiericati

Il 28 giugno 1914 l’attentato di Sarajevo, nel quale persero la vita l’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, fu la scintilla che fece scoppiare un conflitto che da tempo era nell’aria. L’Austria inviò un ultimatum alla Serbia, ritenuta mandante dell’atto terroristico, e così, a causa di un perverso e repentino effetto-domino di reciproche dichiarazioni di guerra, gli Imperi centrali di Austria-Ungheria e Germania si trovarono in capo a poche settimane schierati contro le potenze dell’Intesa: Francia, Inghilterra e Russia. Allo scoppio ufficiale della ostilità, il 28 luglio 1914, l’Italia, legata fin dal 1882 a Germania e Austria dalla Triplice Alleanza, dichiarò la propria neutralità in un conflitto che si preannunciava cruento e difficile e che vide la sperimentazione e l’introduzione di nuove terribili armi di distruzione, spesso, diremmo oggi, di “massa”.

L’opinione pubblica interna si divise ben presto tra interventisti e neutralisti, mentre le diplomazie dei due schieramenti premevano nel contempo sul governo italiano affinché rompesse gli indugi ed entrasse in guerra per far pendere l’ago della bilancia ciascuno dalla propria parte. Le operazioni militari sui vari fronti avevano infatti in breve assunto la caratteristica nota staticità della guerra di trincea e la vittoria sarebbe arrisa a chi poteva permettersi più a lungo di impegnarsi in una vera e propria “guerra di materiali”.

In sostanza le masse operaie e contadine italiane erano per lo più contrarie alla guerra, di cui non comprendevano le ragioni, mentre i ceti borghesi e gli intellettuali parteggiavano principalmente per l’intervento. Frattanto, mentre in Italia si dibattevano tali questioni, gradualmente il conflitto si estese su scala mondiale, coinvolgendo sia potenze minori che temevano di restare sacrificate dal nuovo assetto internazionale che si sarebbe potuto delineare, sia nazioni che cercavano invece di approfittarne per soddisfare le proprie ambizioni territoriali. Nell’agosto del 1914 il Giappone dichiarava guerra alla Germania, nel novembre dello stesso anno la Turchia si schierava a fianco degli Imperi centrali, così come la Bulgaria. Grecia, Portogallo e Romania scelsero invece le potenze dell’Intesa.

Nella primavera del 1915 prevalse infine la fazione interventista e il 24 maggio 1915, l’Italia entrò quindi in guerra a fianco dell’Intesa. Il Regio Esercito italiano, cui toccava una guerra offensiva, si schierò inizialmente con la 1ᵃ Armata attorno al saliente tridentino (cioè all’odierno territorio del Trentino Alto-Adige, all’epoca sotto il dominio austriaco), la 4ᵃ Armata nel settore carnico, tra il Monte Peralba ed il Monte Canin, la 2ᵃ Armata dal Monte Canin al Fiume Vipacco, la 3ᵃ Armata dal Fiume Vipacco al mare. Di fronte aveva l’Esercito Austro-Ungarico, già impegnato nei Balcani e in Galizia, che dovette dislocare un’Armata sul saliente tridentino, un’altra lungo il Cadore e la Carnia e una terza dal Monte Nero (oggi Slovenia) al mare.

La prima grande avanzata cominciò tuttavia, causa problemi logistici e di mobilitazione, solo il 23 giugno 1915 con la Prima (23 giugno – 7 luglio 1915) delle dodici terribili Battaglie dell’Isonzo, cui seguirono la Seconda (18 luglio – 3 agosto 1915), la Terza (18 ottobre – 4 novembre 1915) e la Quarta (10 novembre – 2 dicembre 1915) che avevano per obiettivo le due teste di ponte di Tolmino (oggi Slovenia) e di Gorizia, nonché il bastione del Carso.  A metà marzo del 1916, per impedire agli Austriaci di trasferire truppe sul fronte di Verdun, dove i Tedeschi avevano lanciato un attacco poderoso, fu scatenata la Quinta battaglia dell’Isonzo (9  marzo – 15 marzo 1916), particolarmente aspra tra il Monte San Michele e San Martino del Carso (presso Gorizia).

Dal 15 maggio al 13 giugno 1916, gli Austriaci passarono al contrattacco e, a loro volta, sferrarono la “Strafexpedition” (spedizione punitiva) contro l’Italia, meritevole di castigo perché colpevole di aver abbandonato gli antichi alleati della Triplice. L’operazione comportò un forte attacco nemico, con un furioso cannoneggiamento, su un fronte di una quarantina di chilometri, dalla Val Lagarina alla Valsugana. Respinta fortunatamente la minaccia austriaca, il 6 agosto 1916 iniziò la Sesta battaglia dell’Isonzo (6 agosto – 17 agosto 1916), condotta dalla 3ᵃ Armata. Questa battaglia portò finalmente alla conquista della città di Gorizia. Da metà settembre si combatté la Settima (14 settembre – 18 settembre 1916), l’Ottava (10 ottobre – 12 ottobre 1916) e la Nona (31 ottobre – 4 novembre 1916) battaglia, sempre con perdite umane terrificanti e irrilevanti rettifiche di fronte. La Decima battaglia dell’Isonzo (12 maggio – 5 giugno 1917), con l’obiettivo di conquistare il bastione montuoso strapiombante sul fiume Isonzo tra Plava (oggi in Slovenia) – Gorizia e dello strategico massiccio dell’Hermada, e l’Undicesima battaglia (17 agosto – 12 settembre 1917), con l’obiettivo l’altopiano della Bainsizza (in Slovenia), sortirono finalmente gli effetti sperati. Si minarono però ancor più le forze fisiche e morali dei soldati, che potevano comprendere solo la conquista di pochi metri di terreno a fronte di sacrifici inenarrabili. A fine ottobre, le truppe austriache, rinforzate da alcune delle migliori divisioni tedesche resesi disponibili dal fronte orientale, scatenarono la Dodicesima battaglia dell’Isonzo (24 ottobre – 19 novembre 1917). La 14ᵃ Armata Austro-Ungarica (formata da otto divisioni austriache e sette germaniche) riuscì a infiltrarsi tra Plezzo e Tolmino tra le posizioni della nostra 2a Armata, che non aveva assunto il prescritto schieramento difensivo e che fu preventivamente sconvolta dal fuoco di artiglieria convenzionale e a gas, e raggiunse abilmente la conca di Caporetto (località oggi tutte in Slovenia). Ciò determinò lo scardinamento del fronte giulio e la ritirata, onde evitare l’accerchiamento delle altre Armate, sul fiume Tagliamento, e quindi un ulteriore arretramento per opporre l’estrema, ma già eventualmente pianificata, resistenza sul fiume Piave e il massiccio del Grappa, invero previdentemente fortificato e “infrastrutturato” per tale malaugurata evenienza.

Nel 1917 accadevano frattanto in campo alleato due avvenimenti di fondamentale importanza. Il primo, sul fronte orientale, che rese possibile lo sfondamento austro-tedesco del 24 ottobre, fu lo sfaldamento dell’esercito russo, dopo la caduta dello zar e la rivoluzione bolscevica. Il secondo fu l’ingresso in guerra degli Stati Uniti a fianco dell’Intesa che, grazie al notevole apporto in uomini e materiali contribuì al successo sul fronte occidentale.

Nel 1918, con gli italiani ora sulla difensiva, rivelatasi posizione di vantaggio per la peculiarità del conflitto, gli Austriaci effettuarono a metà giugno l’ultima loro grande offensiva. La notte del 15 giugno 1918 scatenarono infatti un massiccio bombardamento dalla Val d’Astico al mare, seguito al mattino successivo dall’attacco delle fanterie, principiando quella che fu definita come Battaglia del Solstizio o Seconda Battaglia del Piave. I combattimenti infuriarono per più giorni sull’altopiano di Asiago, sul Monte Grappa, sulla zona collinare del Montello, lungo tutto il corso del Piave, ma alla fine gli Italiani riuscirono vittoriosamente a respingere il nemico il 21 giugno.  Ora il Comando Supremo poteva dedicarsi a preparare la battaglia risolutiva che avrebbe preso il nome da Vittorio Veneto.

Questa iniziò il 24 ottobre 1918, esattamente un anno dopo Caporetto, alle tre di notte con la preparazione dell’artiglieria ed il getto dei ponti sul Piave. Le nostre unità passarono sull’altra sponda del fiume ed iniziarono l’offensiva. L’avanzata divenne in pochi giorni travolgente, sbaragliando un nemico già provato dalla grave crisi economica che l’impero stava vivendo. Fu così possibile portarsi il 3 novembre a Trento e, via mare, nella stessa giornata a Trieste, finalmente italiane. Il tutto portò alla resa incondizionata austriaca, sottoscritta nella stessa giornata a Villa Giusti (PD), con la clausola della sua entrata in vigore 24 ore dopo la stipulazione (4 novembre 1918). L’Unità d’Italia era finalmente completata.

Nella Grande Guerra furono mobilitate le classi dal 1874 al 1900 e il prezzo in vite umane non si può ancora quantificare correttamente, ma intere generazioni furono decimate. Chi ebbe la fortuna di tornare a casa rimase mutilato, invalido o ferito, se non nel corpo, almeno nel più profondo dell’anima!

A latere di tutto ciò sorprende inoltre il grande numero dei caduti che non hanno un nome. Si pensi che nel più grande e noto sacrario italiano di Redipuglia, che raccoglie le spoglie di circa 1/6, o forse 1/7, dei caduti italiani, ben il 60% risultano ignoti. Come è potuto accadere in un conflitto dove finalmente tutti i soldati erano identificabili con le piastrine di riconoscimento!? Le ragioni sono ovviamente diverse. In primis possiamo cercarne le cause nella realizzazione materiale della piastrina italiana che, diversamente da quanto avverrà nel secondo conflitto mondiale in cui le informazioni erano incise direttamente nel metallo, constava di due valve metalliche che racchiudevano una strisciolina di carta ove erano scritte a penna le generalità del militare. Inutile quindi spendere ulteriori parole sulla prontadeperibilità di tale sistema in un contesto operativo dove il fango della trincea, le valanghe o le intemperie delle battaglie d’alta quota la facevano da padrone. Oltre questa lacuna oggettiva vi era poi anche la componente soggettiva poiché una gran parte dei militari, ancora obnubilati dalla superstizione, non indossavano le piastrine. Di molti corpi poi, ammesso e non concesso che i cadaveri avessero diligentemente portato la piastrina e che fosse ancora leggibile, non rimaneva più molto di identificabile, talmente erano devastati dalle nuove terribili armi. A questa prima serie di caduti ignoti già dopo la battaglia, si uniranno poi quelli che, identificati subito, se non forse dalla piastrina magari dai compagni, e sepolti con nome e cognome in un cimiterino di guerra, diverranno sconosciuti all’atto della traslazione nei vari sacrari militari. Anche qui le ragioni sono varie. I cimiterini erano curati dai cappellani militari che diligentemente ne redigevano dettagliate piantine, che inviavano poi all’autorità militare, ma spesso tali luoghi, a causa della vicinanza del fronte, venivano sconvolti dai successivi combattimenti e bombardamenti. I campisanti che sopravvivevano, essendo realizzati in zone spesso impervie, “scoppiata” la pace erano soggetti all’incuria e all’abbandono alle intemperie che facilmente cancellavano le indicazioni dalle singole sepolture. A rimediare a tale stato di degrado, unitamente ad intenti celebrativi del valore del combattente italiano, intervenne anni dopo il regime fascista, raccogliendo le salme disseminate nei vari luoghi del fronte per convogliarle in appositi sacrari. E qui infine ci fu la più colpevole e, purtroppo, italiana delle ragioni, dato che talvolta, l’appalto a cottimo delle imprese che dovevano curare la traslazione dei caduti fece sì che gli ultimi noti divenissero infine degli sconosciuti da tumulare più disinvoltamente nella fossa comune!

Sacrario Militare di Redipuglia